Jonathan Safran Foer è uno dei miei scrittori preferiti. Non ho mai creduto a Harold Bloom quando parlava di “angoscia dell’influenza”, quel sentimento che appartiene agli aspiranti scrittori di oggi, e di domani, che guardandosi indietro, ripensando a tutti i grandi scrittori che ci sono stati prima di loro, diventati ormai classici, si fanno prendere dal panico, dall’angoscia appunto, e decidono di non provarci nemmeno a scrivere, tanto sarebbe inutile, visto che non riuscirebbero mai a raggiungere quella grandezza. Quando ho letto Molto forte, incredibilmente vicino, ho tirato un sospiro di sollievo, mi sono sentito ispirato, libero di esprimermi come avevo sempre voluto, desiderato, immaginato. Ma questa è solo una premessa, niente di più, per darvi un’idea dell’argomento di questo pezzo, del soggetto, anche perché la cornice, che poi siete voi, siamo noi, ecco, è molto più grande e più importante.
È uscito per Guanda il nuovo libro di Foer, Possiamo salvare il mondo, prima di cena (traduzione di Irene Abigail Piccinini, pp. 320, 18 euro), che non è un romanzo, ma una raccolta di piccoli grandi saggi scritti così bene, in maniera così chiara e limpida, che sembrano dei microromanzi, dei racconti, dove i protagonisti siamo sempre noi. Io che non sono mai stato vegetariano, che ho mangiato tante volte al Mc e al Burger King (anche se dopo aver visto Fast Food Nation e Okja ho smesso di andarci per un po’ di tempo), che ho viaggiato spesso in aereo, che passo ore, giorni, settimane nel traffico, al volante della mia macchina, sono il destinatario ideale del libro di Foer. Ed è bello, davvero, accorgersene, capire i propri sbagli e scriverne, in un giorno così, in un venerdì che non è un venerdì qualunque, ma è un venerdì che potrebbe finire in un libro di storia, il “Friday For Future” indetto da Greta Thunberg, che vedrà milioni di persone scendere nelle piazze e nelle strade di tutto il mondo per manifestare la voglia di esserci, di proteggere il presente per salvare il futuro, per noi e per quelli che verranno.
Foer ha ragione, non esiste un argomento più importante della salute del pianeta in cui abitiamo, dovrebbero capirlo tutti. Forse non c’è, allo stesso tempo, come dice lui, un argomento più noioso, e quindi più difficile di cui parlare, da trasmettere, soprattutto in un libro, di questo. Il famoso miele, che secondo Lucrezio doveva essere cosparso sull’orlo del bicchiere per far ingerire la medicina ai bambini (la poesia per far passare un messaggio filosofico e morale), per Foer viene rappresentato dagli aneddoti, dalle storie di uomini e donne, per lo più anonimi, che hanno dato vita a quella che oggi chiamiamo umanità. L’altruismo, che potremmo definire semplicemente come “amore verso il prossimo”, di Claudette Colvin, la prima donna afroamericana a non aver ceduto il posto a un bianco su un autobus (2 marzo 1955). L’altruismo di un americano qualunque che durante la Seconda Guerra Mondiale, la sera, spegneva le luci di casa per impedire ai sommergibili tedeschi di sfruttare la retroilluminazione urbana per individuare e affondare le navi in uscita dai porti. L’altruismo di David Buckel, che la mattina del 14 aprile 2018, in una zona del Prospect Park di Brooklyn, si è cosparso di benzina e si è dato fuoco lasciando questo messaggio: “L’inquinamento devasta il nostro pianeta, trasudando inabitabilità attraverso l’aria, il suolo, l’acqua e il clima. Il nostro presente è sempre più disperato, il nostro futuro esige più di quello che stiamo facendo”. L’altruismo di chi, ogni giorno, mentre guida, si fa da parte non appena sente una sirena o vede un’ambulanza nello specchietto retrovisore.
Mentre mi perdevo nei racconti di Foer, ho imparato che dall’avvento dell’agricoltura (dodicimila anni fa) gli esseri umani hanno distrutto l’83 % di tutti i mammiferi selvatici e la metà delle piante, che come le console dei videogiochi l’allevamento industriale è un’invenzione degli anni Sessanta (prima gli animali venivano allevati all’aperto in concentrazioni sostenibili), che gli alberi sono fatti al 50 % di carbonio (assorbono CO2) e che il taglio e l’incendio delle foreste sono responsabili di almeno il 15 % delle emissioni globali di gas serra ogni anno, che il bestiame (le foreste vengono abbattute per ottenere foraggio e pascoli) è una delle cause principali dei cambiamenti climatici, che se anche riusciremo a limitare il riscaldamento globale a 2 gradi il livello dei mari salirà sommergendo le coste di tutto il globo, i conflitti armati aumenteranno del 40 %, 143 milioni di persone saranno destinati a diventare migranti climatici, i ghiacci che ricoprono la Groenlandia si scioglieranno, metà di tutte le specie animali rischierà l’estinzione, così come il 60 % di tutte le specie vegetali.
Come dice Foer, la paura che tutto questo possa succedere, la preoccupazione per noi e soprattutto per quelli che verranno dopo di noi, la voglia di evitare che questo mondo finisca per sempre, somiglia al sentimento che proviamo in una ola. È qualcosa di contagioso, qualcosa che funziona solo se ci crediamo davvero, tutti insieme. Come dice un personaggio di Undone, una serie tv che sto guardando su Amazon Prime, “abbiamo dimenticato di essere noi stessi parte della natura ed è grazie ai ritmi di quest’ultima che riusciamo a provvedere a noi stessi, ma non dobbiamo prendere più di quello che ci serve”. Dovremmo ridurre il nostro consumo di prodotti di origine animale, evitare lo spreco alimentare, prendere meno l’aereo e anche la macchina, quando non è necessario, utilizzare lampadine LED, riciclare e utilizzare materiali rinnovabili. Almeno provarci. Qualche giorno fa, un amico mi ha consigliato un’app, TooGoodToGo, dove posso ordinare a un prezzo fisso di 4,99 euro una “magic box” di cibo (corrispondente però a un ordine di 15 euro) nei forni, nei bar e nei ristoranti che si trovano nella mia zona, per evitare che dei prodotti freschi, alla fine della giornata, vengano buttati via. Non è molto, ma è già qualcosa. Come scendere in piazza in un venerdì come tanti altri, partecipare a un corteo, farsi sentire, sapere di non essere soli. E visto che la parola “crisi” deriva dal latino e significa “decisione”, direi che dipende tutto da noi.
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