Per scrivere, ha detto una volta Murakami, non è necessario aver fatto Lettere all’università. Per diventare un pianista o una ballerina, bisogna esercitarsi fin dall’infanzia, per diventare uno scrittore, invece, basta prendere una biro, un quaderno, e assicurarsi di avere “una certa capacità di inventare delle storie”. E quando scrive, Murakami, per prima cosa mette in ordine tutti gli oggetti che sono sparsi sulla sua scrivania, non si alza prima di aver riempito “dieci fogli da quattrocento caratteri” (se si tratta di un romanzo), poi, una volta terminato, lascia passare un po’ di tempo, più o meno una settimana, prima di rileggere tutto, dall’inizio alla fine.
Chissà quanto tempo avrà impiegato, e in quale parte del mondo Murakami avrà scritto il suo nuovo racconto, Abbandonare un gatto, appena pubblicato da Einaudi, e illustrato magicamente da Emilano Ponzi che, come sempre, è riuscito a ritagliarsi uno spazio per accompagnare le parole e offrire un po’ di respiro alla fantasia dei lettori.
“La memoria – diceva Murakami in uno dei suoi racconti – è qualcosa di simile a un romanzo, o forse è un romanzo è qualcosa di simile alla memoria”. Lo stesso vale per i racconti, per la scrittura in generale. E come confessa alla fine di questo nuovo racconto, Murakami riesce a pensare, ad affidarsi alla memoria, a “ripassare le epoche della sua vita”, per dirla alla Ungaretti, solamente scrivendo. E più scrive, più viene fuori il contrasto del nero dell’inchiostro sul bianco della pagina, più l’autore sente che sta scomparendo, che sta diventando “trasparente”.
Già dall’incipit, “Cosa ricordo di lui…”, si capisce che questo racconto si muove sul filo sottile, delicato dei ricordi, delle immagini della sua infanzia, che hanno come unico vero protagonista suo padre. Immagini che spesso, però, sembrano collocarsi in un tempo leggero, sospeso tra la realtà e il sogno. E come se fosse un esercizio infantile, che sembra semplice ma non lo è, quelle immagini, quei ricordi sono come dei puntini collegare con la biro per dare forma a una storia, per mettere a fuoco il presente.
C’è il padre che prega in ginocchio davanti al butsudan, il piccolo altare dei morti, “per le anime di chi è morto in guerra.” C’è il padre che la guerra la vive in prima persona, che viene arruolato nell’agosto del 1938, che poi viene congedato per finire gli studi, per continuare a comporre haiku: “Uccelli che migrano/Ah, dove andranno mai?/Forse alla madre terra”. C’è il padre che accompagna il figlio a vedere le partite di baseball allo stadio, che ci rimane male, quando il figlio smette di tifare. C’è il padre che diventa un insegnante di giapponese, come la madre, e non fa poi così tanta fatica ad accettare il fatto che al figlio non piaccia molto la scuola.
Come ha raccontato Murakami in diverse occasioni, non è mai stato uno studente brillante, in classe, il più delle volte, si annoiava, e quando era adolescente c’erano troppe cose “ben più stimolanti della scuola”: i libri, la musica, i film, le ragazze, il mare, il baseball, coccolare il gatto. Il gatto, un animale libero, impulsivo, irrazionale. D’altronde, Murakami ha immaginato di dividere le persone in chi ha un carattere “da cane” e chi “da gatto”, e di appartenere alla “seconda categoria”, perché è sempre stato uno di quelli che quando qualcuno gli dice “Girati a destra!” gli viene voglia di voltarsi a sinistra.
Il gatto, qui, compare all’inizio e alla fine, in due esistenze diverse, per dare, forse, una certa ciclicità al racconto. Prima viene abbandonato in spiaggia, poi sale in alto su un albero, e miagola forte perché non è più in grado di scendere. In fondo, “scendere è molto più difficile che salire”, così come ricordare è molto più difficile che scrivere.
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