Non so quale sia la definizione di “classico” che preferisco, tra le quattordici elencate da Italo Calvino in un articolo uscito su L’Espresso nel 1981, diventato ormai un classico. “Un libro che non ha mai finito di dire quel che ha da dire”? Un libro che provoca continuamente, periodicamente, dibattiti e analisi critiche e che ogni volta se le “scrolla di dosso”? In questo caso, sceglierei quella che riguarda la rilettura, che in fondo “è una lettura di scoperta come la prima”.
Questa estate, l’ho passata in gran parte in Puglia, a Ostuni, nella città bianca, ma soprattutto ad Andria. Sarà perché mi è capitato di partecipare a un festival (il Festival della disperazione) in cui ho presentato un libro bello e angosciante sui negazionisti del clima (l’ha scritto Stella Levantesi e si intitola I bugiardi del clima, pubblicato da Laterza), sarà perché ci sono state delle sere, anzi, delle notti, in cui la temperatura sfiorava i quaranta gradi, ma a un certo punto della mia piccola grande vacanza, ho sentito il bisogno di rileggere Lo stranierodi Albert Camus.
Mi è capitato di comprare libri perché ne parlavano tutti, perché non ne parlava più nessuno, perché li avevo persi, perché magari si erano nascosti nella dimensione spazio-temporale di un trasloco, perché avevano una copertina bellissima. Mentre passeggiavo nel corso principale di Andria, però, mentre sperimentavo quello che tutti, prima di partire, mi avevano descritto come un caldo secco, più sopportabile di quello che si respirava a Roma, ho ripensato al romanzo di Camus.
Non avevo perso la mia copia, che se ne stava a Roma, nel buio silenzioso di una casa abbandonata per un po’ di tempo. Ne ho comprata una nuova, con una nuova traduzione del compianto Sergio Claudio Perroni (nella mia prima copia, invece, la traduzione era di Alberto Zevi, entrambe, comunque, pubblicate da Bompiani). Di questo romanzo, mi erano rimaste addosso delle sensazioni, dei ricordi un po’ vaghi, la temperatura alta che si respirava dalla prima all’ultima pagina, tipica, immagino, dell’estate ad Algeri, e uno scontro in spiaggia del protagonista con un gruppo di arabi. Avevo bisogno, forse, di un romanzo estivo, un romanzo che fosse in grado di farti sentire l’estate, e anche di tornare lì, a spiare la vita di Meursault, per cercare di trovare nuove chiavi di lettura nella mia.
Mentre stavo ad Andria, un giorno che era quasi diventato sera, mi è arrivato un messaggio di una delle mie amiche più care, da Vasto, uno di quei messaggi cui non si sa mai come o cosa rispondere, che forse non hanno bisogno di risposta, un messaggio in cui lei mi scriveva che la mamma se n’era andata. Una notizia, quella, la peggiore che una persona possa mai ricevere, secondo me, con cui si apre anche Lo straniero: “Oggi è morta mamma. O forse ieri, non so”.
Nove parole, che nel romanzo potrebbero suonare proprio come una notizia, da sviscerare all’infinito come aveva fatto Barthes nel suo diario di lutto o Simenon nella sua “lettera”, ma che invece non sono altro che un identikit di Meursault, che sembra pronto, o quasi, a raccontarci la sua storia, prima e dopo l’arresto, un personaggio che viene punito per le sue emozioni, che non sa bene come guardare, come muoversi nella sua interiorità.
Quando sono andato a Vasto, il giorno prima dei funerali, dopo aver abbracciato la mia amica senza dire nulla, mi sono trovato nell’obitorio dell’ospedale, dove c’erano amici e parenti che erano passati per un saluto, per un abbraccio anche loro, e per vedere il corpo di quella signora per l’ultima volta, quella madre che io, purtroppo, non avevo mai conosciuto quand’era in vita, e non ce l’ho fatta a vederla per la prima volta così, in quell’occasione. La stessa cosa capita a Meursault con il corpo della madre, con la differenza che lui, quando gli chiedono perché non voglia vederla, risponde “Non lo so”, anche se forse, in fondo, lo sa, solo che non ha voglia di scoprirlo.
Così comincia “la vita dopo”, come avrebbe detto Donald Antrim, quella che si vive senza la propria madre, che per Meursault è fatta di piccoli disagi, come quello di rendersi conto di vivere in una casa troppo grande, ma anche di momenti di sollievo, quando osserva da lontano gli altri che vivono le proprie vite, dai tifosi che escono euforici dallo stadio dopo una vittoria alle ragazze che passeggiano a braccetto, “a capo scoperto”. Da lì prende corpo una serie di vicende, un amore inespresso con una ragazza di nome Marie, che vorrebbe sposarlo ma non capisce come lui possa accettare solamente per assecondarla, diventa amico di un vicino, Raymond, che è abituato a picchiare le donne che frequenta, che ne picchia una in particolare, che chiede a Meursault se può aiutarlo a scriverle una lettera “con dentro dei calci ma pure delle roba per farla pentire”, una donna legata a un gruppo di arabi che incontreranno una domenica, in una spiaggia vicino ad Algeri. Senza sapere bene come, forse per via del caldo infernale, di un cielo che quel giorno sembrava volesse “lasciar piovere fuoco”, durante quella domenica, Meursault si ritrova solo sulla spiaggia dopo aver ucciso uno di quegli arabi, dopo aver sparato cinque volte, quattro delle quali su un corpo ormai inerte.
È così che si conclude la prima parte del romanzo, che ritroviamo poi Meursault, dopo l’arresto, che racconta se stesso attraverso gli occhi degli altri, che lo vedono un po’ come “l’Anticristo”, non tanto per il delitto o perché non ha alcuna voglia di parlare e confessarsi con il prete, quanto per il suo stato d’animo, per la sua atarassia, per la sua imperturbabilità, che lo porta ad essere sempre se stesso, a non sorprendersi, a non sconvolgersi se muore sua madre o se un giorno qualunque diventa un omicida.
La seconda parte, che prepara il terreno all’esecuzione capitale del protagonista, giustamente condannata da Camus, convinto che non servisse a scoraggiare gli assassini, quanto a moltiplicarli, assistiamo a un piccolo grande cambiamento. Meursault non si pente, non ha sensi di colpa per quello che ha fatto, per quello che non ha sentito, non crede che la sua vita, ora che si trova a sperimentare una nuova solitudine, ora che prova a guardarsi da fuori, abbia finalmente un senso, una linearità, uno scopo, no, però va oltre l’immediato presente (quello in cui, secondo Camus, viveva il popolo di Algeri), ripensa alla madre come a una persona, come a un essere umano che aveva comunicato con lui, arriva capire quando gli diceva che nella vita ci si abitua a tutto, comincia a succhiare pezzi di legno immaginando che siano sigarette, e soprattutto smette di annoiarsi: “Ho finito di smettere del tutto di annoiarmi da quando ho imparato a ricordare”. E mentre il suo caso diventa uno scoop giornalistico, mentre lo accusano tutti di non avere un’anima, solo perché non sono in grado di capirlo, lui impara a ricordare, e se la memoria è davvero inaffidabile, come dicono, allora impara anche a immaginare. Non esiste, forse, un romanzo più estivo di questo, in cui un condannato a morte ammette di aver ucciso per colpa del sole, troppo forte, e durante l’ultimo processo, in mezzo alle voci di chi lo accusa e di chi non vede l’ora di assistere alla sua fine, riesce a sentire il rumore della tromba di un venditore di gelati provenire dalla strada.
Un romanzo che finisce prima della fine, come l’estate, d’altronde, qui come ad Algeri, in cui, come dice Camus, sembra che la terra venga liberata, come se per qualche giorno il paese “s’impastasse di tenerezza”.
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