Chissà cosa avrebbe detto Manganelli di qualcuno che lo celebra a trent’anni dalla sua morte, forse è meglio non pensarci. Lui che credeva che la biografia non esistesse, che nascere fosse come una sorta di congedo dalla vita vera, di arrivederci, un ci rivediamo poi quando sarò morto, che la vita fosse una pausa, un momento di silenzio, e mentre noi la guardiamo, “la nostra vita non ci guarda, guarda altrove”.
Mi sono avvicinato a Manganelli all’università, quando ho scelto di dedicargli la mia tesi, quella tesi che poi, rimaneggiata, sarebbe diventata il mio primo libro, il mio primissimo esordio. Ho iniziato con Centuria, una raccolta di racconti, cento per l’esattezza, lunghi tutti una pagina e mezza, un libro nato, diceva Manganelli, dal fatto che avesse dei fogli della macchina da scrivere leggermente più lunghi rispetto alla misura normale. Gli piaceva l’idea di essere costretto dal caso e dalle circostanze alla brevità, che fosse la carta stessa a impedirgli di esagerare e di perdere il controllo. Dopo aver letto quel libro (pubblicato in Italia da Adelphi, come tutta l’opera di Manganelli), credevo che si trattasse di uno scrittore semplice, e non capivo mica perché fosse così poco conosciuto, visto che quel libro era un capolavoro, all’altezza della tradizione novellistica italiana più alta. Poi ho letto tutti gli altri libri, e ho capito che il vero Manganelli era un altro, che non poteva essere etichettato come uno scrittore di racconti, che Centuria per lui era stato una specie di divertissement, “una burla nella burla”. Lui amava la tradizione barocca, manieristica, amava scrivere trattati, parodie, “libri paralleli”, come quello che aveva dedicato al suo antieroe preferito di sempre, Pinocchio. Una leggenda racconta che Manganelli, nella sua infanzia, dopo aver finito di leggere Pinocchio per la prima volta, avesse battuto per diversi minuti i pugni sul pavimento, non riusciva a capacitarsi del fatto che quel burattino inafferrabile, irrequieto, sempre pronto a sbagliare, fosse diventato un ragazzino per bene come tanti altri. Perché, come recitava il titolo di una sua celebre raccolta di saggi, secondo Manganelli la letteratura era una menzogna, fatta di “diserzione, disubbidienza, indifferenza, rifiuto dell’anima”, e lo scrittore, da immaginare come una persona immorale, aveva il ruolo del negromante, al servizio di quelle parole (morte) che riposavano nei dizionari, e che aspettavano solo di essere evocate. E lo stile, per uno scrittore, corrispondeva alla sua solitudine. Tutti quelli che andavano in un’altra direzione, che pensavano alla morale, alla condivisione, a qualche strano fine consolatorio della letteratura, avevano semplicemente frainteso il messaggio.
Non ha mai scritto un romanzo, Manganelli, lo definiva come “quaranta pagine più due metri cubi d’aria”. Ha iniziato scrivendo poesie, alcune bellissime, d’amore, con versi come “Abbiamo tutta una vita/da NON vivere insieme” o “C’è sul calendario il giorno/che non ricorderò il tuo nome”. Poi una serie di trattatelli, di manuali, dall’esordio, Hilarotragoedia, un viaggio all’interno di se stesso per combattere il fantasma materno, fino a Dall’inferno, una riscrittura dell’inferno dantesco. Indizi per provare, come fossimo August Dupin, il commissario di Edgar Allan Poe, che Manganelli aveva portato in Italia con la sua traduzione, a indovinare delle tracce del suo vissuto. Il rapporto terribile con la madre, tanto che solo dopo la sua morte è riuscito a esordire (tardivamente, confessava lui) nel mondo letterario, il matrimonio andato a male, la psicanalisi (con Ernst Bernhard, lo stesso psicanalista di Fellini), l’amore e la sua continua e ricorrente negazione. Tracce capaci di dar vita alla leggenda, che lo vedeva avere una relazione clandestina con Alda Merini, quando lei era ancora minorenne, per poi fuggire a Roma a bordo di una lambretta, o litigare con Gadda sul suo terrazzo di casa perché “l’ingegnere” credeva che il Manga, come veniva chiamato da molti, con il suo Hilarotragoedia, avesse fatto il verso al suo La cognizione del dolore. Che colpa ne ho, diceva Manganelli, se abbiamo entrambi delle madri un po’ matte? Poi i corsivi, dissacranti, come quello in cui rispondeva ironicamente a Pasolini sul tema dell’aborto, i reportage, le case, gli indirizzi strani, tipo il romano Via Chinotto 8 (interno 8).
Leggere Manganelli significa mettere da parte le nostre abitudini, la nostra coscienza, il nostro modo di guardare il mondo. Significa leggere, studiare, fare una profonda autoanalisi, senza il desiderio di capire sempre il significato delle parole, ma con la fortuna, magari, di ritrovarne il suono. Sapendo, come diceva lui, che “chi fa un viaggio, rischia di arrivare”.
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