Caro Nanni, come va? È quello che ti chiederei se adesso ti incontrassi per caso. Come va, sì, meglio di come stai, perché mi sembrerebbe un po’ meno invadente, anche se ci conosciamo, ci siamo conosciuti, almeno, ecco, e qualche anno fa abbiamo cominciato a darci del tu. Anzi, io ho cominciato a darti del tu, quando in un pomeriggio come tanti, a me e a Paolo, hai chiesto quando avremmo smesso di darti del lei. Non mi sembrava vero. Come in quel film di Woody Allen, in cui Mia Farrow va ogni giorno a vedere lo stesso film perché c’è il suo attore preferito, e a un certo punto lui esce dallo schermo e comincia a uscire con lei. Te lo ricordi quel film? Secondo me sì. Abbiamo parlato anche di Woody Allen, un giorno, io ti dicevo che non riuscivo a capire quelli che avevano smesso di vederlo perché non faceva più film come Manhattan e Io e Annie, e tu eri d’accordo con me, “Woody Allen va visto sempre!”, dicevi.
Non lo so perché ti sto scrivendo questa lettera, o forse sì, per chiederti come va, magari, o perché ho come l’impressione che abbiamo lasciato qualche discorso a metà, in sospeso. Forse davanti all’Eden, dopo che avevamo visto entrambi un film giapponese o coreano, o davanti al Bar Perù, che tu stavi partendo con la vespa, avevi appena messo il casco, era ancora slacciato, o una domenica mattina al Sacher, durante la proiezione di un documentario o nel pieno di un mercatino natalizio, con i libri degli editori indipendenti. Nelle ultime settimane sarò venuto tre volte al Nuovo Sacher, una volta per un film di Truffaut e le altre per un film italiano, Ricordi?, che mi ha distrutto, non ho ancora smesso di pensarci, e poi per un film francese di e con Louis Garrel, che però mi è piaciuto meno. Mi ricordo diversi momenti al Sacher, quella mattina che ti sei messo a controllare gli incassi di tutti i film, come in quel corto che si può vedere su YouTube, o quel pomeriggio di settembre, che abbiamo parlato, fuori era ancora piena estate, lo si sentiva nell’aria, lo si vedeva dal colore delle foglie degli alberi, dalla luce, e tu hai parlato proprio di quello, della luce, del fatto che una luce così si poteva vedere in pochi posto nel mondo. Ripenso spesso a quel momento, a quella frase, è come se risuonasse dentro di me tutte le volte che a Roma spunta un po’ di sole e si può andare in giro con dei vestiti leggeri. Ho visto il tuo documentario, che era sul Cile di Allende e di Pinochet, sì, ma anche sull’Italia di oggi, sul periodo storico che stiamo vivendo, e non ho fatto che annuire, e stare sempre sul punto di commuovermi. A un certo punto ho pensato di alzarmi in piedi, di dire ad alta voce “Anch’io non sono imparziale”, ma ho solo immaginato di farlo, come tutti, credo. Forse è anche per questo che ti sto scrivendo questa lettera, perché l’Italia, oggi più che mai, secondo me, dovrebbe ripartire da persone come te. A dirla tutta, però, l’ho pensato anche quando ho visto quella scena di Ecce Bombo in cui al bar strattonavi un tale che diceva “Rossi, neri, tutti uguali”, urlando “Ma che siamo in un film di Alberto Sordi?! Te lo meriti, Alberto Sordi!”, e in Bianca, quando dicevi che voler bene è una scelta, che quando si sceglie di voler bene è per sempre, e in Palombella rossa, quando perdevi la memoria e alla fine ti mettevi a correre a bordo piscina piangendo, reclamando le merendine di quand’eri bambino, e in Aprile, quando fingevi di non voler fare un documentario sull’Italia, proprio mentre lo stavi facendo, mentre esultavi sulla vespa per la nascita di Pietro. E le tue profezie, poi, ne Il caimano e in Habemus Papam, la tua capacità di capire sempre i nostri tempi, di anticiparli, anche. Mi è sempre piaciuto sentire le persone che parlavano di te, quelle che pensavano di conoscerti solo perché avevano visto un tuo film, mi è sempre piaciuto smentirle. C’era chi parlava di presunzione e di snobismo e non aveva capito niente, si fermava alla prima impressione, una prima impressione che magari aveva avuto di te come attore, di te con un altro nome, che so, Michele Apicella, e confondeva tutto. È stato bello scoprire che dietro tutte quelle impressioni c’era un profondo senso di inadeguatezza, un po’ di timidezza, una grande umanità. Come quella volta che abbiamo presentato il libro insieme alla Galleria Alberto Sordi, che la libreria per poco non scoppiava, non passava un filo d’aria, e tu, prima di cominciare, mi hai detto a bassa voce che non sapevi cosa dire, e durante la presentazione facevi degli strani disegni su un foglio e avevi scritto anche una citazione di Thomas Bernhard, anche se ora non mi ricordo quale fosse. O quell’altra volta, in pieno centro, vicino al Pantheon, che guardavamo insieme dei libri e tu mi hai detto che non avevi mai capito gli accenti Einaudi, perché mettessero l’accento acuto sulle “i” anche quando ci voleva l’accento grave. So che adesso stai girando il tuo nuovo film, sulla vita in un condominio, e so che sarà bellissimo, anche perché mi è sempre piaciuto il tuo modo di raccontare gli interni, intesi come case e come vita interiore, e il loro rapporto con quello che c’è fuori. Il tuo ultimo film, Mia madre, l’hai fatto vedere in anteprima a me e a Paolo, in quella piccola sala di via Margutta, e quello è un momento che non dimenticherò mai, vedere un film di Nanni Moretti con Nanni Moretti. Un film così, poi, che appena è finito non sapevamo cosa dirti, avevamo perso tutte le parole, le avevamo lasciate nella sala, e siamo riusciti solo a stringerti la mano e a dirti “Complimenti”. È bello che tu non faccia un film all’anno, che le tue storie tu le faccia crescere piano piano, con un po’ di tempo, dentro di te, ma è anche vero che si sente la tua mancanza. Almeno io la sento, davvero, soprattutto in questo momento storico. E visto che è da un po’ che non ci incontriamo per caso, non rimane che affidarti questa lettera, per chiederti: Come va? Anzi, come stai? Dov’eravamo rimasti?
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